
Oggi più che mai il ruolo dell’ICT (Information and Comunication Technology) sta entrando nella vita di tutti aprendo la strada alla così detta rivoluzione dell’“Internet of Things”.
Sempre più si sente parlare di smart cards, smart cities, smart watch, tutte procedure o prodotti che per essere utilizzati, o meglio, per raggiungere la loro piena utilità, devono essere connessi alla rete che elabora i dati provenienti dai loro sensori.
Gran parte di questi sono posizionati nei muri delle case, nei nuovi televisori, in tutti gli apparecchi elettronici che comperiamo e nelle automobili. Parte di questi sensori, che sono invece fissi, sono inseriti negli spazi pubblici e sono quelli con i quali i nostri meccanismi elettronici si collegano senza che noi lo sappiamo.
Questo progresso sta senza dubbio aumentando le aspettative generali per la nascita di nuovi prodotti e processi alzando di gran lunga la frontiera delle innumerevoli applicazioni tecnologicamente innovative realizzabili.
Se grazie a Colombo si sancì l’inizio della modernità con la scoperta di una nuova frontiera, cioè quella americana, oggi non si può più parlare di frontiere fisiche ma si deve parlare di frontiera di tipo informatico definita da alcuni “infosfera”.
Oggi è impensabile immaginare il capitalismo nella forma attuale, quindi dei rapporti di produzione capitalistici globali, senza la mediazione della rete di internet.
La rete internet, in realtà, è fatta, fisicamente, dall’hardware che si dirama nella rete estesa: sono dei giganteschi cavi, estremamente grossi che passano in tunnel sotto i mari. Sono una serie di server potentissimi che consumano una quantità spaventosa di energia e che semplicemente nessuno sa dove siano.
Tutto ciò ci viene presentato come progresso ma in realtà esso si basa su routine industriali che erodono irrimediabilmente le risorse naturali del pianeta anche molto velocemente.
Per rendere chiara l’analisi è necessario introdurre il concetto di impronta ecologica, definita come un indice statistico utilizzato per misurare la richiesta umana nei confronti della natura. Essa mette in relazione il consumo umano di risorse naturali con la capacità della Terra di rigenerarle.
L’impronta ecologica giusta che dovremmo avere è pari a 1. Oggi l’impronta ecologica mondiale è pari a 1,4 il che significa che dovremmo avere un pianeta e mezzo per non esaurire le risorse naturali ogni anno prima della fine di quest’ultimo. Ecco che infatti ogni anno l’overshoot day, vale a dire il giorno nel quale abbiamo finito di consumare le risorse che sono teoricamente riproducibili e incominciamo a consumare delle risorse che non saranno mai più riprodotte, si accorcia perdendo giorni.
Ma la cosa ancor più pessima è che i luoghi che vengono indicati da tutti come i più avanzati del mondo, come la famosa Silicon Valley, ebbene l’impronta ecologica di questi posti è 6. Il che significa che se tutto il mondo vivesse e si sviluppasse per poter diventare come ci dicono che potremmo diventare, cioè come la Silicon Valley ci vorrebbero sei pianeti per poter mantenere tutti quanti questo tenore di vita.
Tutto ciò fa comprendere che se l’impronta ecologica mondiale oggi è 1,4 è solo grazie a quei posti sottosviluppati dal Burkina Faso, all’ India dove la società ha un impatto ambientale molto più basso dato soprattutto dalla mancanza di progresso tecnologico.
Insomma, questo per dire che abbiamo una situazione molto, molto squilibrata e che quindi non c’è da stupirsi dei flussi migratori e delle situazioni drammatiche che si verificano, questo dipende semplicemente dal fatto che l’equilibrio globale è fortemente sbilanciato.