A distanza di un secolo appare sempre attuale il grande discorso pronunciato da Filippo Turati, uno dei padri del socialismo italiano, alla Camera dei Deputati il 26 giugno 1920. Un vero manifesto di intenti che viene riproposto nella rivisitazione delle stagioni del riformismo socialista, in cui vennero alla luce i contenuti di un testo che propose la questione di rifondare un patto per lo sviluppo che mettesse al centro la modernizzazione della vita nazionale. Non a caso si chiama “Rifare l’Italia” ed apri un nuovo rapporto tra governo e opposizione all’interno dell’Italia liberale assediata da una crisi che assunse connotati davvero profondi e gravi.
Turati preparò un intervento di largo respiro in occasione della riapertura delle Camere. Affiorò con chiarezza e nitore una concezione laica di superamento degli steccati politici, in cui Turati afferma che la politica è «essenzialmente una tecnica» e che per il bene della nazione bisognava creare nuove alleanze. La politica per Filippo Turati non sono i bei discorsi, gli intrighi parlamentari, né tanto meno le alleanze occasionali violate o tradite. La politica, per il grande socialista, «è, o dovrebbe essere, nell’interpretare l’epoca in cui si vive, nel provvedere a che l’evoluzione virtuale delle cose sia agevolata dalle leggi e dall’azione politica. Questa interpretazione e questa azione sono essenzialmente una tecnica».
Sulla necessità di rifondare la Nazione, Turati, si dichiarò favorevole al superamento della dimensione burocratica del potere (soprattutto nel Mezzogiorno), ma anche a favore della ripresa economica, la ricostruzione del mercato, una politica dei consumi, un riassetto dell’impresa, che deve avvenire all’interno di un rinnovamento della forma della politica.
Turati mette in guardia dal pericolo di un «fallimento imminente» dell’Italia , «se non si affrettano i ripari», e si dichiara convinto che il movimento operaio non sia ancora in grado di assumere la guida del Paese, ma che debba dare un contributo esterno significativo agevolando l’azione della parte più illuminata della borghesia (quindi per l’epoca Nitti e Giolitti). A patto però che costoro imboccassero con decisione la strada dello sviluppo e delle riforme e quello che Turati chiama un «programma della nazione», molto più ambizioso di un semplice programma di governo. Turati rovescia la famosa formula di Massimo d’Azeglio, e affermò che fatti gli italiani, bisognava fare l’Italia.
Occorreva a suo avviso, quindi, fare l’Italia con i progressi della tecnica per superare le arretratezze in tempi brevi. Le condizioni per realizzare questa svolta epocale di modernizzazione del Paese, secondo Turati, erano legate all’intervento di promozione e coordinamento dello Stato, perché i proprietari, tranne quelli dei settori industriali d’avanguardia, erano destinati ad essere conservatori piuttosto che innovatori. In tal senso Turati indica due nomi che rappresentarono un esempio di questo tipo di politica. Il primo è Walther Rathenau, ministro della Ricostruzione economica nella Germania di Weimar, che fu sostenitore di un intervento regolatore dello Stato nell’economia.
La sua idea e la sua proposta economica giunsero in Italia alla fine nel 1919 e diventarono un elemento fondamentale nel dibattito pubblico di quegli anni, in cui lo statista tedesco sottolineava la necessità di governare lo sviluppo. Rathenau espresse nel libro L’economia nuova le seguenti affermazioni: “Il passato è caduto e non risorgerà mai più. Se esso era un paradiso, è ormai un paradiso perduto. Affliggersi dietro il passato, rimpiangere ciò che non può risorgere, non è degno di un uomo e non può essere nella maniera tedesca; il paradiso «meccanizzato» dell’economia senza freni ha avuto il suo tempo e ha avuto il suo pregio; se lo abbiamo abbandonato per forza, noi gli voltiamo ora volontariamente la schiena e ci vogliamo creare col sudore della nostra fronte un campo che sarà nostro e sarà benedetto per volontà del nostro lavoro onorato”.
Così Turati si richiamò a questo pensiero ma insieme a Rathenau, il padre del socialismo tenne in considerazione la lezione di Cavour. Camillo di Cavour, che nel 1847, quando ancora l’unità d’Italia non si era realizzata, scrisse un saggio sulle ferrovie italiane, in cui venne indicato il ruolo fondamentale che questo nuovo mezzo di trasporto doveva svolgere per la modernizzazione del Paese e per la sua unificazione.
Turati conclude poi con altre due leve per la modernizzazione della Nazione e che erano, appunto, l’elettricità e l’industria che avrebbero favorito la crescita economica italiana. Naturalmente pose il problema di uno Statuto dei lavoratori e il grave problema della questione meridionale. Questa progettualità posta da Turati si infranse con la nascita del fascismo che porta, comunque, avanti un progetto di modernizzazione economica non coerente con le proposte di Filippo Turati.
Mentre nel dopoguerra a cominciare dagli anni cinquanta si ripropongo questi temi che furono, comunque, il nucleo essenziale del nuovo centro sinistra che varò un programma di riforme in cui le idee di Filippo Turati costituirono un illuminante ispirazione per l’innovazione e la modernizzazione del Paese.
1 Commento
Per molte cose ancora siamo qua ed è passato un secolo! L’ispirazione è l’ideale socialista per sono sempre un insegnamento senza fine!