Parlare di speranza, soprattutto in questi tempi foschi, significa, a tratti, voler “dire l’indicibile, una sfida spesso necessaria, ma a cui deve succedere un cambiamento di passo che comporta l’invocazione e l’abbandono, trasformando le parole in una semplice, abitata compresenza”. Così il filosofo Giuseppe Goisis chiude la postfazione al suo volume dedicato alla speranza, in uscita in questi giorni nella collana “Parole allo Specchio”.

Goisis, già docente ordinario di filosofia politica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, attivo sul fronte dei diritti umani, studioso del pensiero politico di figure come Sorel, Mounier, Rosmini, si era già avvicinato al tema, attualizzandolo, in Dioniso e l’ebrezza della modernità, pubblicato da Mimesis nel 2016.
Gli abbiamo posto alcune domande per provare a comprendere se la speranza possa ancora “diventare principio di critica e di resistenza in un orizzonte troppo rassegnato…”.
Professore, lei a lungo si è occupato della storia del socialismo, in particolare di quello francese e italiano, crede che nella tradizione di quest’ultimo si possa evidenziare un’apertura al tema della speranza?
Sì, fin dalle prime formulazioni, generose e con qualche punta di slancio ingenuo; non dimentichiamo che il protosocialismo italiano si è sviluppato in un ambiente prevalentemente contadino, con particolare rilievo nella Valle Padana. Si possono rammentare, a Reggio Emilia, i discorsi accesi sul futuro di un Prampolini; lo schema dicotomico si modulava così: “I preti vi hanno detto”, “noi ora vi diciamo”. Per questa contrapposizione, anticlericale ma insieme erede del cristianesimo, il socialismo attingeva al grande serbatoio del Futuro, inteso come serbatoio di ogni sogno e mèta di tutte le speranze. In una vertiginosa successione, in una “corrente calda”, la convinzione che il futuro si schiuderà come un regno di giustizia: tutto ciò si manifesta nelle più posate analisi dei riformisti, ma anche negli slanci veementi dei massimalisti. L’idea di avanzare, con tutte le proprie forze, entro un futuro migliore, procedendo sempre innanzi, senza mai arrestarsi, inebriandosi di ogni novità positiva, di ogni conquista ottenuta dai lavoratori e per i lavoratori.
Neppure il senso del futuro è più quello di una volta. Banalità, o perdita di un orizzonte, che schiaccia nella precarietà di un presente frettoloso, privo di respiro?
Apparentemente, si tratta di una di quelle banalità che si esprimono e circolano nelle osterie, nei bar, o al gioco di bocce. A guardar meglio, un’osservazione che ha qualche fondo di verità e fa venire a galla una seria preoccupazione: la nostra società italiana, in particolare negli ultimi decenni, si è come appiattita, schiacciata in un presente frettoloso ed evasivo. Gli ambienti più esposti, quindi a rischio, sono gli universi giovanili, o così mi sembra; tagliati fuori, spesso, da una memoria approfondita del passato, molti vivono in una specie di presente eternamente prolungato, soffocati da un orizzonte del futuro che appare sempre più remoto e angosciosamente indecifrabile. Sono state perfino coniate due parole per indicare questo senso mutato della temporalità: “presentismo” e “brevetempismo”. E un ragazzo, smarrito, ripeteva, con un volto mesto: “Anche domani, per me è troppo tardi”. Da quando ho colto al volo questa confessione, non ho mai cessato di rifletterci e di stupirmi amaramente.
La speranza dunque guarda sempre al futuro, o si può parlare di una speranza che guarda con nostalgia al passato?
In effetti, il problema è interessante. Qualche volta, semplificando, si attribuisce alla nostalgia una valenza solo “passatista” e quindi reazionaria; ma la questione non è così lineare: ci può essere una nostalgia come forza critica e perfino dotata di un coefficiente rivoluzionario, come W. Benjamin ha ben compreso. Quando il passato è avvertito come uno scrigno ricco di tesori, magari attraverso un’idealizzazione o una specie di trasfigurazione, da questo sentire si genera una specie di impazienza verso il presente e le sue contraddizioni, e tale disagio, più o meno sottile, diviene insofferenza e configura uno spirito critico che, a volte, alimenta strategie sociali e politiche conseguenti. È il tema della prophetic memory, tale da saldare una memoria selettiva del passato con un senso creativo di proiezione verso il futuro; tutto ciò, in breve, evidenzia il complesso ordito del “tempo vissuto”, per il quale una memoria trasfiguratrice sembra diventar capace di nutrire il nostro slancio verso il futuro. Purché la nostalgia non diventi contemplazione “chiusa” ed esclusiva degli abissi del passato: fissando ossessivamente tali abissi, il rischio è quello di caderci dentro e di rimaner inghiottiti nei suoi vortici, in una specie di vertigine.
“Sperare è possibile solo se si spera per tutti”: come può configurarsi una speranza collettiva e quale è il rapporto fra speranza e comunità?
Non penso che una persona che rifletta, anche in maniera intermittente, possa sperare di essere felice senza gli altri, o contro gli altri, a meno che non sia affetta da qualche patologia, gravemente distorsiva del carattere; proprio perché la speranza è alimentata dal senso di giustizia e lo nutre a sua volta, in un cortocircuito positivo. Attenzione però a non enfatizzare il termine/concetto di comunità, di per sé neutro, in qualche maniera, rispetto a una qualificazione valoriale: la comunità può essere costituita anche da una gang criminale, o da un gruppo di camerati nazisti… Dipende dall’orientamento che sostanzia la vita di ogni comunità, dai rapporti fra i membri e infine dalle relazioni con chi è esterno alla comunità stessa, che può presentarsi come inclusiva, esclusiva, o anche voracemente assorbente. Il punto fondamentale consiste nel non concepire la propria realizzazione senza gli altri uomini.
Lei ha curato e commentato per il “Corriere della Sera” una raccolta antologica su Tommaso Moro, naturalmente il pensiero corre all’ “utopia”: quale la differenza fra utopia e speranza?
Come per andare più avanti ancora… Lo slancio creativo, caratteristico del socialismo italiano, non si arresta di fronte a modelli storiografici rigidi, non si cristallizza in interpretazioni meramente filologiche; anche le figure del passato vengono ricreate, assumendo un soffio di vita rinnovata e posture coraggiosamente inedite; non solo Giuseppe Garibaldi, con la sua camicia rossa, è assimilato alle prospettive del socialismo, ma perfino Gesù viene trasfigurato e mitizzato come socialista (con abbondanza di particolari, evidenziato da A. Nesti e da altri studiosi, soprattutto del primo socialismo italiano). Nel mio volumetto, accentuo anche troppo la distinzione fra utopia e speranza; ma esse non sono in antitesi, e qui ho la felice occasione di spiegarmi: la speranza, concreta, ragionevole e operosa, non si oppone all’utopia, ma allo sterile utopismo, un sogno da sonnambuli, che rischia in ogni momento di rovesciarsi in un incubo. Utopia, nel senso positivo del termine: credere che un’alternativa di giustizia sociale esista e lavorare assieme per costruirla, con la persuasione che tale alternativa si identifichi con il socialismo.
L’intera evoluzione del socialismo tende a procedere dall’utopia alla scienza, ma qualcosa del fuoco dell’utopia sopravvive, a scaldare i cuori e le menti, alimentando così quella che chiamerei la passione del possibile ancora inattuato.
La speranza è più legata al sogno o al bisogno?
A tutti e due, essendo ogni sogno, come la prosecuzione, a occhi chiusi o aperti, di un desiderio che ha riferimento alle condizioni materiali, magari concependo tali condizioni in modo rovesciato, o addirittura alternativo. Essendoci nell’uomo un’unità delle facoltà, occorre valorizzare il momento del risveglio: la ricchezza del sogno trabocca nella vita desta e le imprime uno slancio decisivo. In breve, per tentare di realizzare i propri sogni, occorre svegliarsi, magari assieme.
L’uomo, ogni uomo, è un animale enigmatico, da amare, ma anche da temere; lo anima la passione del nomadismo, ma si muove anche alla ricerca di ancoraggi e di sicurezze, come un Mosè che guardi dall’altura una Terra promessa intravista, ma già agognata. È un animale anticipante, ma attratto anche dalle dolci, vecchie cose della consuetudine, come in certi testi di Gozzano o di De Amicis, affascinati dal socialismo nella vecchia Torino. Anche oggi, ci sono persone che vogliono usare la cesura introdotta da Covid 19 per effettuare un gran balzo in avanti e coloro che, temendo ogni slancio verso l’ignoto, desiderano solo ripristinare lo status quo. Ma il socialista più autentico ama il brivido dell’eresia, in senso lato: non per nulla ogni anno, dal 1907, le municipalità socialiste salivano, con un corale seguito popolare, da Biella alla cima del Monte Rubello, a rendere omaggio a Fra Dolcino, simbolo dell’antidogmatismo e considerato un precursore (il suo mito fu rinnovellato, in tempi più recenti, da Dario Fo e Umberto Eco).
Il regista Monicelli, in un’intervista, sosteneva che “la speranza è un’invenzione dei padroni”: affermazione certo un po’assertiva, ma possiamo dire che oggi la speranza è anche una merce sullo scaffale del supermarket della politica?
Sì certo, ma si tratta della speranza come manipolazione, della speranza prostituita; tanto più un valore è percepito come decisivo, tanto più cresce l’inclinazione ad usarlo e abusarlo: lo stesso accade per la paura, altra emozione e sentimento potente. Proudhon l’ha notato: ha profetizzato il dominio delle banche (“bancocrazia”) e il trionfo dei valori avviliti, manipolati e prostituiti dalla loro contaminazione con il denaro (“pornocrazia”). Da ciò l’illusione, che decade in verticale e si tramuta in cocente disillusione: pensate solo a diversi esponenti della contestazione del 1968, che dalla ricerca della rivoluzione sono passati alla ricerca della sistemazione. Per questo ho insistito, con il filosofo della scienza Paolo Rossi, che si distinguano le speranze realizzabili, da quelle irrealizzabili e dall’assenza di ogni speranza. L’ultima prospettiva è dannosa, conducendo alla rassegnazione; la seconda è vana e lascia una scia di amarezza; solo la prima impostazione, in definitiva, conduce alla ricerca di una società più giusta, composta da uomini e donne in cammino, verso libertà ed eguaglianza.Si risolve il problema denunciando ogni menzogna e ogni strategia di cattura manipolativa dell’uomo da parte degli apparati informativi e politici.
Nel periodo del Covid 19, come si possono distinguere le speranze/inganno dalle speranze che aiutano a vivere?
Non è così facile operare tali distinzioni; solo personalità mature e libere, fiere ma non arroganti, sono capaci, a quanto sembra, di svincolarsi dalle mille manipolazioni e dalla rete delle “false notizie” che ci avvolge quotidianamente. La genuina speranza dovrebbe caratterizzarsi per essere ragionevole, realizzabile e capace di generare risultati positivi, per la propria vita e per quella altrui; occorre attendere la prova dei fatti, per distinguere con certezza chi vuole soltanto consolarci, magari con dolci bugie, e chi invece vuole procedere risolutamente in avanti; è chiaro a chi riflette che non ci sarà un puro ripristino dello status quo antea: o vi sarà spazio per la ricerca di una maggiore giustizia sociale e per un risanamento della Terra, o il nostro stesso avvenire si avvolgerà tra le nubi più nere. Ma il futuro è nelle nostre mani, e molto dipende dalla incisività e coralità che sapremo concentrare nelle nostre scelte.
Allora, cari lettori dell’“Avanti!”, considerate il titolo del vostro giornale, davvero glorioso per la sua storia: il titolo stesso, a ben guardare, è insieme un programma, una direzione di marcia e sottende il grande slancio della speranza ricreatrice.