Paolo Borsellino ebbe la drammatica consapevolezza che la sua fine fosse vicina e che il “tritolo” fosse già arrivato a Palermo. Si infuriò con il procuratore Giammanco, dopo avere saputo da Salvo Andò, Ministro della Difesa, che c’erano delle informative dei Ros che lo indicarono insieme ad altri uomini delle istituzioni come un obiettivo di cosa nostra. Prese atto di quella solitudine vissuta da tutti gli uomini a rischio di essere uccisi e nonostante le continue richieste la via D’Amelio abitata dalla madre non fu mai stata sgombrata di auto per renderla sicura al giudice.
Quella sera dopo l’orribile carnaio di corpi smembrati, fumo e fuoco nella riunione in prefettura, Claudio Martelli, ministro della giustizia di allora, chiese conti e ragione di quelle incomprensibili omissioni per garantire la sicurezza al giudice e si decise la grande operazione dei Vespri siciliani che fu il controllo del territorio da parte dell’esercito per consentire alle altre forze di polizia di dedicarsi alla cattura dei mafiosi latitanti.
“Devo sbrigarmi, non ho più tempo”, continuò a ripetere dal giorno in cui, sull’autostrada A29 che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, Falcone venne fatto saltare in aria assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta.
Nel suo ultimo giorno di vita Paolo Borsellino decise di pranzare a Villagrazia di Carini – una frazione di Palermo – con la moglie, Agnese, e i figli Manfredi e Lucia. Quindi li salutò e si recò con la scorta dalla madre. Due minuti prima delle 17.00 il corteo arrivò in via D’Amelio e il giudice scese dall’auto e si mosse verso il citofono.
Fece appena in tempo a suonare: una Fiat 126 imbottita di tritolo esplose uccidendolo sul colpo, assieme ai cinque agenti della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Poco prima di essere ucciso Paolo Borsellino chiese ai magistrati di Caltanissetta di essere sentito sulla strage di via Capaci ma nessuno lo convocò mai per farlo deporre. Parlò in modo chiaro e duro, con toni drammatici in una conferenza organizzata all’università di Palermo, Borsellino ricordando Falcone spiegò: “La sua morte l’avevo in qualche modo messa in conto”.
In tutte le occasioni ebbe uno sguardo impietrito e ogni parola venne soppesate con un tono lento e continue pause. L’attacco durissimo alle istituzioni e, poi, una sorprendente critica assai pesante alla magistratura “che forse ha più colpe di tutti”, e allo Stato che lasciò solo il suo amico e collega “morire professionalmente, senza che nessuno se ne accorgesse. Denunciai quanto stava accadendo e per questo ho rischiato conseguenze gravissime, perché alla morte di Falcone tutti avrebbero dovuto già sapere. Il pool doveva morire di fronte al paese intero, non nel silenzio”.
Dopo la strage di via D’Amelio cominciò quello squallido depistaggio e, poi, quella scandalosa scomparsa dell’agenda rossa che Paolo Borsellino portò sempre con sé. Ma lui si confidò con la moglie Agnese: “Quando mi ammazzeranno, sarà stata la mafia ad uccidermi. Ma non sarà stata la mafia a volere la mia morte”, come ha raccontato il fratello Salvatore in un’intervista. Paolo Borsellino fu la più grande memoria vivente insieme a Falcone su Cosa Nostra e sapeva troppe cose che custodì nella sua mente e in quell’agenda fatta sparire misteriosamente.
Quella mattina, come sempre, Borsellino la ripose nella sua ventiquattrore. Eppure, dal luogo del delitto sparì e nessuno ne seppe più nulla. “Sappiamo, grazie alle perizie della polizia scientifica su un filmato video, che tra le 17.20 e le 17.30, l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli ebbe la borsa in mano e la portò in direzione dell’uscita di via d’Amelio – ha ricostruito una trasmissione della RAI -. Sappiamo, dalle dichiarazioni rilasciate ai giornalisti dal funzionario di polizia Arnaldo La Barbera pochi giorni dopo la strage, che la borsa fece tappa alla questura di Palermo. Sappiamo che la famiglia del giudice controllò la borsa dopo la strage, denunciando la mancanza dell’agenda. Sappiamo che il primo verbale di apertura della borsa fu redatto dalla procura di Caltanissetta il 5 novembre 1992, ben tre mesi e mezzo dopo la strage. Sappiamo, sempre grazie ai reperti fotografici e video, che la borsa nelle mani di Arcangioli era integra, senza segni di bruciature, mentre la borsa repertata dalla procura era parzialmente bruciata su un lato”.
I familiari rifiutarono i funerali di Stato. “Certamente – ha accusato il fratello – in via D’Amelio c’erano persone che aspettavano. E non potevano essere che persone dei servizi segreti. Non era alla mafia che interessava sottrarre l’agenda rossa”. Arcangioli fu indagato per il furto, quindi prosciolto dall’accusa “per non aver commesso il fatto”.
Il 24 luglio si celebrarono i funerali di Borsellino. In forma privata, perché la famiglia rifiutò le esequie di stato: la moglie Agnese accusò il governo di non aver protetto il marito.
Fu scelta una chiesa di periferia, quella di Santa Maria Luisa di Marillac. Nonostante ciò diecimila persone attesero fuori dalla chiesa per dare l’ultimo saluto al giudice in modo civile. Alcuni giorni prima, ai funerali dei membri della scorta, la folla inferocita ruppe i cordoni dei circa quattromila agenti posti a difesa dei numerosissimi uomini politici presenti. Scandendo: “Fuori la mafia dallo stato. Fuori lo stato dalla mafia”.
L’anno scorso, dopo 27 anni, ha destato una forte emozione sentire la voce del giudice che, registrata nel corso di un’audizione, alla commissione antimafia nel 1984, denunciava le difficoltà incontrate nel suo lavoro con la mancanza di personale: i dattilografi, i segretari, gli assistenti. La mancanza di sostegno da parte dello Stato “per gestire processi talmente grandi da comportare centinaia di faldoni colmi di documenti, capaci di riempire stanze intere”.
Furono queste audizioni del periodo in cui si preparò il maxi-processo che si aprì il 10 febbraio 1986 presso l’aula-bunker di Palermo. Il grande capolavoro giudiziario di Borsellino, Falcone e del pool antimafia. Il più grande procedimento contro la criminalità organizzata mafiosa mai tenuto al mondo: 460 imputati, 200 avvocati difensori, quasi sei anni di lavoro. Conclusi con 19 ergastoli e pene per un totale di 2.665 anni di reclusione.
Un colpo devastante e incredibile per la mafia, anche se molti boss, all’epoca, fossero ancora latitanti. A distanza di ventotto anni, invece di celebrazioni e retoriche tutti i cittadini si dovrebbero associare alle parole amare e tristi di Salvatore, il fratello del giudice, per chiedere a chi ha il potere di fare piena luce sulla scomparsa dell’agenda rossa e di far cadere tutti gli eventuali segreti di Stato sulle gravi zone d’ombra che impediscono di giungere alla verità piena sulle terribili stragi che hanno sconvolto l’Italia intera.